La “Serenata montecalvese”

[1]La “serenata”, tra i canti montecalvesi, è senz’altro da ritenersi il tipo di composizione più noto; veniva eseguita in diverse circostanze, tra le quali la più frequente era in occasione di quel lungo cerimoniale che portava al matrimonio. Infatti era uso, qualche giorno prima del grande evento, “portare” la serenata alla futura sposa. Tale abitudine, seppur sporadicamente, si ripete ancor oggi. In tempi più remoti, giovani innamorati usavano il canto quale viatico per una dichiarazione d’amore; insieme ad amici, muniti di uno strumento musicale – di solito un organetto – si dirigevano alla casa dell’amata. La serenata veniva eseguita all’esterno dell’abitazione; quasi sempre una finestra o una porta separavano l’innamorato dalla fanciulla desiderata. Questo costume era tanto diffuso che in paese vi erano delle specialiste che, dietro compenso, scrivevano serenate personalizzate. A volte, per adattare lo schema alle circostanze e ai destinatari, se ne variavano la lunghezza e le parole, se non addirittura il motivo, dando così origine a una nuova composizione, e travalicando in tal modo l’obiettivo del mandato ricevuto; e cioè, quello di lanciare messaggi d’amore, e in alcuni casi anche di “sdegno”, qualora i sentimenti dell’innamorato non fossero corrisposti. Il canto è conosciuto in tutti i paesi mediterranei; a Montecalvo conserva la sua originalità, per cui si può affermare  che un fraseggio di tipo autoctono sia individuabile sin nell’attacco: “E so’ minutu da Napul’apposta pi ti purtane li suon’a tte.”

La prima registrazione del canto di cui ad oggi si abbia notizia si deve all’etnomusicologo americano Alan Lomax, che nel gennaio del 1955 radunò al piano superiore del palazzo municipale di Montecalvo le cantatrici più in voga in quel periodo. L’autore del presente testo, su quelle registrazioni, ha pubblicato, insieme ad Antonio Cardillo, il volume “Alan Lomax: il passaggio a Montecalvo Irpino”. Il brano registrato da Lomax, a tutt’oggi, non è stato pubblicato; infatti, ne sono conservate riproduzioni solo presso le sedi di enti o associazioni no-profit. Di fatto, è presente negli archivi della Library of Congress (USA) dell’istituto governativo dell’American Folk life Center.  In Italia, fa parte della raccolta etnomusicale dell’Accademia di Santa Cecilia in Roma.

La “Serenata montecalvese” è stata un cavallo di battaglia del “Gruppo folk montecalvese” ormai sciolto. Quest’ultimo, nel corso della sua attività, ne propose due versioni; la prima esecuzione, incisa in una musicassetta oramai introvabile, è corale; nella successiva, quella del 1995 registrata in un apposita sala di incisione di Villanova del Battista (AV), al coro si affianca anche un solista. Queste registrazioni precedettero alcune esibizioni televisive. Infine, in entrambi le versioni manca il famoso passaggio Abbasci’a lu Chianu, ha natu ‘nu gigliu; chiunca passa lu v’addurà. E ogni mamma, chi tene ‘na figlia, tutt’a mmene la vuonno dà.

Il 28 aprile del 1978 il canto fu registrato presso il santuario della madonna dell’Incoronata di Foggia; i ricercatori (tali Giovanni Rinaldi e Paola Sobrero), in quella occasione ne travisarono il senso. Per cui, “Abbascia’a lu Chjanu” divenne a “A Luciano”. L’incisione è archiviata presso la Cittadella della Cultura di Bari (Archivio di Stato e Biblioteca Nazionale); una menzione della presente segnalazione è pubblicata anche on line nel sito dell’Archivio Sonoro. Tuttavia esiste una seconda serenata in paese, meno nota, che ha per titolo “Serenata allo sposo”, e conosciuta anche come “Leviti, leviti veli e fiora”. Quest’ultima, diversamente dalla prima, veniva eseguita dopo le nozze. Per ulteriori informazioni rimandiamo il lettore al volume citato.

Trascrizione di Mario Sorrentino [2]

E so’ minutu da Napul’apposta
pi ti purtane li suon’a tte.
E si sapissi quantu mi costa,
pi m’addurmjì ‘na notte cu tte.

Mi dici sì, si bella sì,
si giniosa, mi fai murì.

Ninnell’affacciti a la funesta,
vidi chi canta ‘nnanda a la porta:
e sso’ Tuninu, lu tuju cunsorte.
Apri la porta e fammi trasì:
iju so’ Tuninu, lu tuju cunsorte,
apri la porta e fammi trasì.

Mi dici sì, mi dici no,
falla capace lu tiempu ci vo’.

Abbasci’a lu Chianu,
ha natu ‘nu gigliu;
chiunca passa lu v’addurà.
E ogni mamma, chi tene ‘na figlia,
tutt’a mmene la vuonno dà.

Mi dici sì, mi dici no,
si giniosa, mi fai murì.

E soncu l’unnici, l’ora è passata,
nuji c’ avissim’arritirà;
c’ancora vienunu li Carbunieri
e c’ avissira ammanittà.

Li carbunieri songu vinuti
e li manetti c’ hannu mittuti.
Mi dici sì, mi dici no,
falla capace lu tiempu ci vo’.

 

Sono venuto da Napoli apposta
per portare i suoni a te.
E se sapessi quanto mi costa,
pur di dormire una notte con te.

Mi dici sì, sei bella sì,
sei seducente, mi fai morire.

Piccola affacciati alla finestra,
vedi chi canta davanti alla porta:
sono Tonino, il tuo consorte.[3]
Apri la porta e fammi entrare:
sono Tonino, il tuo consorte,
apri la porta e fammi entrare.

Mi dici sì, mi dici no,
per persuaderti tempo ci vuole.

In via del Piano
sbocciato è un giglio;
chiunque passa lo va a odorare.
E tante mamme che hanno una figlia,
tutte a me la vogliono dare.

Mi dici sì, mi dici no,
sei fascinosa, mi fai morire.

Sono le undici, l’ora è passata,
noi ci dovremmo ritirare;
prima che arrivino i Carabinieri
che ci potrebbero ammanettare.

Sono venuti i Carabinieri
e le manette ci hanno messo…
Mi dici sì, mi dici no,
per conquistarti tempo ci vuole.

Il testo è tratto dall’ esecuzione di Giustina Barra – Maria Leone – Gina Narra – Rosaria Scarpellino, riscontrabile nel video appena sotto. Il canto, presenta tutti i tratti della classica serenata montecalvese, eccezion fatta per il verso: “E quanta stelle ci stannu ‘ncielu, e ju li contu a un’a una. E si lu ciele mi dà furtuna, a queddra nenna m’aggia spusà”. Infatti, testo e melodia non si discostano di molto da altre “serenate” repertate in paese. La non perfetta qualità audio fa da contraltare ad una buona esecuzione del brano. Tutto ciò non sminuisce il valore etnografico del documento, specialmente grazie alla bravura delle cantatrici.

[1] Nella foto, una delle interpreti, Giustina Barra
[2] N.d.T.: la palatalizzazione della “c” nelle espressioni “ci avissimu”, “ci avissira” e “ci hannu” viene segnalata dall’elisione della “i” mediante l’apostrofo.
[3] Nel senso di “compagno”, “partecipe”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *