“La lingua può essere considerata, obiettivamente, più bella, più elegante,
più corretta e meglio costruita del dialetto?
La risposta è no.
Per il linguista non c’è alcuna differenza”
(G. Ruffino e R. Sottile – La ricchezza dei dialetti)
Il dialetto, inteso qui nella sua accezione più comune, è parte integrante della cultura di tradizione orale, ed è tutelato dall’UNESCO come Patrimonio immateriale dell’umanità. Per lo studioso, il dialetto è segno di appartenenza a una determinata comunità piuttosto che ad un’altra e delinea, dunque, l’identità storica di un territorio.
Il dialetto si è tramandato negli anni prevalentemente per via orale.
Nella cultura popolare è sinonimo di arretratezza, di passato, di qualcosa appartenente a culture emarginate, periferiche, subalterne. Spesso viene erroneamente associato al concetto di volgarità, ossia a qualcosa di cui non andar fieri.
Dall’unità d’Italia in poi, la cultura dominante ha spinto lentamente il dialetto all’emarginazione. Motivo per il quale si è avuta, nel tempo, la percezione che l’uso del dialetto fosse sinonimo di una condizione sociale di inferiorità.
Tale elemento lo abbiamo riscontrato personalmente durante i rilevamenti sul campo in questi ultimi anni.
Ogni qualvolta facevamo visita agli abitanti del nostro paese, in prevalenza anziani, per registrare i canti della tradizione, la gran parte di essi sembravano, in assoluta buona fede, prendere le distanze dai canti tipici del nostro paese per virare verso un repertorio all’apparenza più forbito, e con testi in larga parte in italiano, col risultato che venivano fuori canti che nulla avevano a che fare con la tradizione montecalvese, pur essendo assimilabili al filone dei canti popolari (Amor dammi quel fazzolettino, Mamma mia dammi cento lire e così via). Continue reading “Culture materiali ed immateriali”